
Misurare la sostanza organica, un parametro fondamentale
La sostanza organica garantisce la fertilità e la produttività del suolo: essa è presente nel terreno grazie alla decomposizione degli organismi morti, siano essi piante, animali o funghi.
Nel suolo di un campo coltivato dovrebbe essere presente una grande quantità di materiale ricco di cellulosa, ovvero i residui colturali. Questa sostanza organica viene poi decomposta dai batteri, che ricaricano il suolo di sostanza organica e humus.
La sostanza organica apporta al suolo dei benefici che non sono riproducibili dalle lavorazioni agricole, tra cui:
- garantire la microporosità;
- migliorare l’aerazione ed il drenaggio del terreno;
- favorire lo sviluppo delle radici;
- favorire l’attività della biomassa;
- stimolare e conservare i cicli degli elementi nutritivi.
Per questo motivo, è fondamentale assicurarsi che il terreno sia ricco di sostanza organica: ma come farlo? Semplice: con una misurazione!
Esistono diverse tecniche per riuscire a quantificare la sostanza organica di un terreno.
Alcune sono semplici, e sono adatte ad essere svolte anche sul campo. Altre, più complesse, vengono svolte solo in laboratorio.
Tecniche di misurazione della sostanza organica
Vediamo quindi alcuni metodi di misurazione della sostanza organica in un campione di suolo: alcuni sono semplici e facilmente riproducibili in modo casalingo ed aiutano a fare una stima della situazione; altri invece, in grado di eseguire una misurazione valida, vengono svolte in laboratori specializzati.
Sostanza organica o Carbonio organico?
Prima di procedere, occorre fare una precisazione: le tecniche di analisi che andremo ad illustrare non determinano direttamente la quantità di sostanza organica nel terreno: nella maggior parte dei casi, vanno a determinare la quantità di carbonio organico totale (abbr. TOC, Total Organic Carbon) all’interno di un campione di suolo.
Dal punteggio TOC poi si ricava attraverso un’operazione di conversione, una stima accurata della quantità di sostanza organica presente all’interno del campione.
Le analisi del Carbonio organico
Vediamo per prima cosa alcune analisi qualitative, che sono quindi rapide da eseguire e che richiedono materiali semplici.
Anche se non ci possono dare un valore numerico assoluto, possono comunque aiutarci a fare una stima della quantità di carbonio organico presente nel nostro campione.
L’osservazione degli orizzonti
Direttamente sul campo, è possibile osservare la presenza o l’assenza di sostanza organica nel suolo.
Per farlo occorrerà praticare una buca profonda almeno 50 cm, in modo da ottenere una sezione trasversale del suolo. I punti migliori in cui realizzare questo scavo, che in linguaggio tecnico si chiama profilo, sono i fossati presenti ai confini del campo.
Una volta scavato il profilo, dovremmo essere in grado di riconoscere una stratificazione di terre di colore diverso: ciascuna di queste rappresenta un momento dell’evoluzione del suolo durante i secoli.
Lo strato più superficiale, spesso dai 5 ai 15 cm, è quello che interessa agli agricoltori, perché contiene la maggior parte della sostanza organica che viene utilizzata dalle piante.
Questo sottile strato viene chiamato ‘orizzonte A‘ oppure ‘orizzonte O‘, a seconda delle classificazioni: la cosa importante è che sia di colore molto scuro, tendente al nero.
Questa colorazione indica una grande presenza di sostanza organica e quindi la fertilità del suolo.
Viceversa, una colorazione grigia o marrone chiaro indica che è in atto un impoverimento del terreno, probabilmente a causa di un eccessivo consumo di risorse da parte delle piante.
La cromatografia circolare su carta
Anche questa tecnica si basa sulla colorazione della sostanza organica, ma agisce in modo più complesso di una semplice osservazione sul campo.
Inoltre, consente di ottenere anche altre informazioni sul nostro terreno. Ne abbiamo parlato estesamente in un precedente articolo, al quale vi rimandiamo attraverso questo link.
Per adesso ci basta ricordare che sul cromatogramma la sostanza organica si osserva dalla forma della zona mediana: i picchi scuri indicano la quantità e la qualità della sostanza organica, così come la sua integrazione nella struttura del terreno.
La reazione con acqua ossigenata
Questo è un metodo di laboratorio che si può eseguire anche a casa, in quanto non è pericoloso e non richiede strumentazione o reagenti particolarmente sofisticati.
In realtà è sufficiente procurarsi un contenitore piuttosto profondo, come una caraffa del volume di un litro, e dell’acqua ossigenata a 30 volumi, ovvero con l’acqua ossigenata ad una concentrazione del 10% all’interno della soluzione.
A questo punto occorre semplicemente inserire nella caraffa un campione di 100 grammi di suolo, prelevati dall’orizzonte superficiale del terreno (quello dove dovrebbe essere presente la sostanza organica).
Per ragioni di sicurezza, è opportuno posizionarsi sotto la cappa della cucina oppure all’aperto, dal momento che la reazione sprigionerà anidride carbonica e quindi esiste il rischio (per quanto improbabile) di soffocamento in un luogo chiuso e non areato.
Come procedere con l’esperimento
A questo punto si può versare l’acqua ossigenata a poco a poco all’interno della caraffa, facendo attenzione a non annegare il campione.
L’ideale è versare qualche goccia di acqua ossigenata, mescolare il campione con un cucchiaio e fermarsi ad osservare: se non succede nulla, ripetere la somministrazione di acqua ossigenata, mescolare nuovamente, fermarsi e ripetere ancora.
Ripetere l’operazione fino a quando non si verifica un’effervescenza all’interno del campione: maggiore sarà l’effervescenza, maggiore la quantità di sostanza organica presente nel campione.
Questo avviene perché l’acqua ossigenata è una soluzione che libera ioni perossido: all’interno dell’esperimento, questi ioni reagiscono con la sostanza organica producendo anidride carbonica e calore, perché si tratta di una reazione esoergonica.
Seguendo questo link potete vedere un video che mostra la reazione nella sua interezza.

Il metodo di Walkley – Black
Veniamo ora ad un’analisi che si può realizzare solamente in un laboratorio.
Questo metodo serve a misurare in maniera molto precisa la quantità di Carbonio organico presente in pochi grammi di suolo. La sua sensibilità è molto utile per monitorare una piccola evoluzione del terreno in un arco di tempo piuttosto breve (rispetto ai tempi geologici), ad esempio un biennio.
Il principio sul quale si basa il metodo Walkley – Black, per la determinazione del carbonio organico, è quello di ossidare ad anidride carbonica il carbonio organico presente nel campione di terreno, in condizioni controllate.
Dopo un intervallo di tempo stabilito, la reazione viene interrotta: grazie alla misurazione della quantità di reagente rimasto inerte (che si conosce sapendo la quantità di reagente presente all’inizio dell’esperimento), viene determinata per differenza la quantità di carbonio organico.
Si tratta di un’analisi riproducibile solamente in laboratorio perché occorrono dei materiali non reperibili sul mercato, anche perché sono pericolosi: acido solforico, acido ortofosforico, ferro ammonio-solfato eptaidrato e bicromato di potassio; occorreranno anche una cappa di aspirazione professionale, un capillare graduato con rubinetto e un agitatore magnetico.
Misurazione del TOC con Rock Evaluation
La tecnica conosciuta come Rock Evaluation, o Rock Eval, è la tecnica di pirolisi maggiormente usata nel campo dell’indagine dei giacimenti di idrocarburi, ma da qualche anno viene utilizzata anche per studiare le caratteristiche del carbonio presente nei suoli suoli.
Grazie a questa tecnica, non solo si può misurare la quantità di TOC, ma addirittura riconoscere la provenienza del carbonio analizzato tra diverse fonti possibili.
Ad esempio, lo strumento che effettua l’analisi è in grado di stabilire se il carbonio proviene da un accumulo di humus, da una colonia batterica o da un frammento di radice: questa proprietà è assolutamente fondamentale quando si paragonano tra loro suoli differenti.
Come funziona la Rock Eval
L’analisi Rock Eval è una pirolisi, ovvero la decomposizione della sostanza organica attraverso il suo riscaldamento in assenza di ossigeno.
In tale processo il campione viene progressivamente riscaldato fino a 550°C in atmosfera inerte.
Durante l’analisi si volatilizzano già a temperatura moderata alcuni idrocarburi presenti nel campione: la loro quantità viene misurata e registrata, e segnalata graficamente con un picco.
Il componente successivo a subire la pirolisi è il cherogene, che libera a sua volta idrocarburi, assieme ad anidride carbonica e ad acqua.
Infine, ciò che resta dalla pirolisi si definisce come carbonio residuo.
Il contenuto totale di carbonio organico viene determinato attraverso una formula che mette in relazione tra di loro tutte le forme del carbonio misurate durante la pirolisi.
Che differenza c’è tra sostanza organica e humus?
Ora che abbiamo visto alcuni dei metodi più utilizzati per determinare la sostanza organica, potremmo chiederci cosa sia l’humus, rispetto alla sostanza organica.
Molto semplicemente, l’humus è una frazione della sostanza organica totale: infatti si può trovare indicata nelle nostre etichette come sostanza organica umificata.
Si tratta di un insieme di molecole molto ramificato e complesso, una sorta di ‘matassa’ di polimeri naturali realizzati dall’attività metabolica dei batteri.
Non si tratta quindi di una molecola semplice, a differenza di altre sostanze concimanti come i fosfati oppure i nitrati: è un agglomerato di molecole che possono ancora trovarsi organizzate in tessuti, con le loro cellule, ma anche in catene di proteine, di aminoacidi o di polisaccaridi alterati dall’attività batterica.
L’origine dei mattoncini dell’humus
Queste sostanze provengono ad esempio da resti vegetali che si decompongono facilmente.
Le proteine semplici, gli acidi organici, gli amidi e gli zuccheri si decompongono rapidamente, mentre le proteine grezze, i grassi, le cere e le resine rimangono relativamente invariati e possono anche essere riconosciuti all’interno della sostanza organica.
La cosa interessante è che la lignina, molecola fondamentale dei fusti delle piante, è uno dei principali precursori dell’humus, insieme ai sottoprodotti dell’attività microbica e animale.
L’humus prodotto dall’umificazione è quindi una miscela di composti e sostanze chimiche biologiche complesse di origine vegetale, animale o microbica.

Com’è fatto l’humus?
Rispondere a questa domanda, che a prima vista può sembrare semplice, è tuttora una sfida aperta. Ancora al giorno d’oggi non è stato possibile riprodurre una sola catena di humus in laboratorio.
Tuttavia, tra le tante molecole che la compongono, i ricercatori sono in grado di riconoscervi alcuni elementi ricorrenti.
I nuclei aromatici, e le catene alifatiche posizionate tra questi nuclei, oltre a molti gruppi funzionali acidi, ad esempio alcool ed acidi carbossilici.
All’interno di un polimero di humus si possono riconoscere le seguenti tre strutture, presenti in proporzioni variabili:
- acidi fulvici, dove il numero di catene alifatiche supera quello dei nuclei aromatici.
- acidi umici, dove il numero di nuclei aromatici e quello delle catene alifatiche sono uguali.
- umine, dove il numero di nuclei aromatici supera quello delle catene alifatiche.
Ulteriori ricerche hanno scoperto che gli acidi fulvici e gli acidi fulvici sono due molecole esclusive dell’humus, dalle notevoli proprietà biostimolanti: ad esempio, migliorano l’allegagione dei frutti, stimolano la crescita delle radici e del fusto, migliorano la resistenza della pianta agli stress.
Ecco perché la sostanza organica è più preziosa quando è umificata!